Marcovaldo

Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui si accorgono solo poche anime sensibili,  come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d’altre terre.
Un giorno sulla striscia d’aiola d’un corso cittadino, capitò chissà donde una ventata di spore, e ci germinarono dei funghi.  Nessuno se ne accorse tranne il manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva correre sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso di un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.

(Primavera. Funghi in città)

[Italo Calvino, Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, Milano, Mondadori, 1993, pag. 3]

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