La prima sorsata di birra

C’è davvero tanta atmosfera nei romanzi di Agatha Christie? Forse ce la inventiamo – solo perché pensiamo: è un romanzo di Agatha Christie. Sì, la pioggia sul prato al di là dei bow-window, il cinz a fiorami verde pavone delle tende, le poltrone dalle curve morbide che arrivano fino a terra, dove sono? Dove sono le scene di caccia color fucsia che decorano il servizio da tè, le rigidità azzurrine dei posacenere di Wedgwood?
Basta che Hercule Poirot metta in azione le cellule grigie e si tiri la punta dei baffi: vediamo l’arancio chiaro del tè, sentiamo il profumo violetto e dolciastro della vecchia Mrs. Atkins.
Ci sono i delitti, eppure tutto è calmo. Gli ombrelli gocciolano nell’entrata, una cameriera dalla pelle di latte si allontana sul parquet biondo lucidato con la cera d’api. Nessuno suona più il vecchio pianoforte verticale, eppure ci sembra che una romanza un po’ stridula dipani le sue facili emozioni sulle foto incorniciate, sulle porcellane giapponesi. Più della violenza dell’omicidio, come sappiamo conta l’intreccio, la scoperta del colpevole. Ma perché gareggiare con le cellule grigie di Poirot, con la bravura di Agatha? Ti stupirà sempre all’ultima pagina, è suo diritto.
Allora in questo spazio familiare tra delitto e colpevole, ci costruiamo un universo confortevole. Li arrediamo noi, quei cottage inglesi, ci mettiamo i rumori metallici di Victoria Station, le noie balneari popolate di ombrellini lungo il molo di Brighton – e persino i lugubri corridoi di David Copperfield.
I prati del croquet sono perennemente bagnati. La sera è dolce. Vicino alla finestra socchiusa, i giocatori di bridge si lasciano illanguidire dagli ultimi profumi delle rose autunnali. Seguiranno cacce alla volpe su sfondo di rovi rossastri e di bacche di sambuco.
Di tutto questo, naturalmente, la scrittrice non fa parola. Guidati da una mano ferrea, ci comportiamo come davanti a ogni autorità abusiva: di soppiatto e quasi di frodo, assaporiamo tutto ciò che non si deve vedere né respirare, tutto ciò che non si dovrebbe neppure assaggiare. Ce lo cuciniamo a modo nostro, e lo troviamo squisito.

(Un romanzo di Agatha Christie)

[Philippe Delerm,  La prima sorsata di birra. E altri piccoli piaceri della vita, Frassinelli, 1998, pag. 94-95]

La luna e i falò

Così questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l'ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti. Si fa l'uva e la si vende a Canelli; si raccolgono i tartufi e si portano in Alba. C'è Nuto, il mio amico del Salto, che provvede di bigonce e di torchi tutta la valle fino a Camo. Che cosa vuol dire? Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo.

[Cesare Pavese, La luna e i falò, Oscar Mondadori, 1969, pag. 6-7]


Stoner

Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse stata. Sospettava che alla stessa domanda, prima o poi, dovessero rispondere tutti gli uomini. Ma si chiedeva se, anche agli altri, essa si presentasse con la stessa forza impersonale. La domanda portava con sé una certa tristezza, ma era una tristezza diffusa che (pensava) aveva poco che fare con lui o con il suo destino particolare. Non era neanche sicuro che essa sorgesse dalle cause più ovvie e immediate, ovvero da ciò che la sua vita era diventata. Sorgeva, secondo lui, dall’ accumularsi degli anni, dalla densità dei casi e dalle circostanze e dalla comprensione che era riuscito ad averne. Provava un piacere triste e ironico al pensiero che quel poco di conoscenza che si era conquistato l’avesse condotto a tale consapevolezza e che alla lunga tutte le cose – perfino ciò che aveva imparato che gli consentiva quelle riflessioni – erano futili e vuote, e svanivano in un nulla che non riuscivano ad alterare.

[John Williams, Stoner, Fazi Editore, 2012, pag. 207-208]

Il naso

Ecco dunque quale storia accadde nella nordica capitale del nostro stato! Ora soltanto, considerando tutto, vediamo che in essa c'è molto d'inverosimile. Per non dire del fatto che il distacco soprannaturale del naso e la sua comparsa in vari luoghi sotto le spoglie d'un consigliere di stato è una cosa troppo strana. Come aveva potuto Kovalèv non capire che non si può mettere un avviso su un giornale a proposito d'un naso? Non lo dico qui nel senso che il prezzo per l'annuncio sarebbe stato troppo caro: questa è una sciocchezza, io non appartengo affatto al novero delle persone attaccate al denaro. Ma è sconveniente, imbarazzante, non sta bene! E poi ancora: come fece il naso a trovarsi nel pane appena sfornato, e come lo stesso Ivàn Jakovlèvič ... Ma la cosa più strana, più incomprensibile di tutte è che gli scrittori possano dedicarsi a simili argomenti. Lo riconosco, questo è davvero inconcepibile, è davvero ... no, no, non posso proprio capire. In primo luogo, non ne viene decisamente alcun vantaggio per la patria; in secondo luogo... ma anche in secondo luogo non ne viene alcun vantaggio. Semplicemente, non so che mai significhi tutto questo...
E tuttavia, malgrado ciò, si può anche ammettere e l'una e l'altra cosa, e anche una terza... già, perché dov'è che non si verificano delle cose inverosimili? E a rifletterci bene, in tutto questo, davvero qualche cosa c'è. Si può dir quello che si vuole, ma simili avvenimenti al mondo accadano, di rado, ma accadono.

[Gogol, Il naso in I racconti di Pietroburgo, Garzanti, 1977, pag. 69-70]

Questa è l'acqua?

Saluti, ringraziamenti e congratulazioni ai laureandi dell'anno accademico 2005. Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: - Salve, ragazzi. Com'è l'acqua? - I due pesci giovani nuotano un altro po', poi uno guarda l'altro e fa: - Che cavolo è l'acqua?
Negli Stati Uniti un discorso per il conferimento delle lauree non può prescindere dall'impiego di storielle d'impianto parabolico a scopo didascalico. Tra le convenzioni imposte dal genere, questa storiella è una delle migliori e con meno fronzoli... ma non temete: non sono qui nella veste del pesce più anziano e saggio che spiega che cos'è l'acqua ai pesci più giovani. Non sono io l'anziano pesce saggio. Il succo della storiella dei pesci è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere. Detta così sembrerà una banalità bella e buona, ma il fatto è che nelle trincee quotidiane dell'esistenza da adulti le banalità belle e buone possono diventare questione di vita o di morte, ed è su questo che vorrei soffermarmi in questa splendida mattinata tersa.

[David Foster Wallace,  Questa è l'acqua in Questa è l'acqua?, Einaudi, 2009, pag. 143]

Il barone rampante

Cosimo era sull'elce. I rami si sbracciavano, alti ponti sopra la terra. Tirava un lieve vento; c'era sole. Il sole era tra le foglie, e noi per vedere Cosimo dovevamo farci schermo con la mano. Cosimo guardava il mondo dall'albero: ogni cosa, vista di lassù, era diversa, e questo era già un divertimento.   Il viale aveva tutt' un' altra prospettiva, e le aiole, le ortensie, le camelie, il tavolino di ferro per prendere il caffè in giardino. Più in là le chiome degli alberi si sfittivano e l'ortaglia digradava in piccoli campi a scala, sostenuti da muri di pietre; il dosso era scuro di oliveti, e, dietro, l'abitato d'Ombrosa sporgeva i suoi tetti di mattone sbiadito e ardesia, e ne spuntavano pennoni di bastimenti, là dove sotto c'era il porto. In fondo si stendeva il mare, alto d'orizzonte, ed un lento veliero vi passava.

[Italo Calvino, Il barone rampante, MilanoMondadori, 1993, pag. 16]